Come si usa 
                dire – rischiando spesso di rimuovere la drammaticità 
                che tale espressione comporta - viviamo in una società 
                globalizzata e complessa, una società dominata dalla comunicazione 
                ed è quindi inevitabile che su tale argomento siano oggi 
                disponibili le più diverse teorie, strategie, tecniche 
                di pronto uso, prescrizioni e buoni consigli. Una trattazione 
                delle vicissitudini storiche e culturali che hanno portato alla 
                moltiplicazione degli sguardi e degli approcci relativamente al 
                tema della comunicazione e dell’ascolto costituirebbe certo 
                argomento utile e interessante.
                Siamo passati attraverso cambiamenti rilevanti nei modi di guardare 
                a come noi, esseri umani, comunichiamo. Per molto tempo, ad esempio, 
                si è teso a considerare la comunicazione sulla base delle 
                informazioni che ci scambiamo sui contenuti, intesi quale oggetto 
                specifico dei nostri discorsi. L’enfasi posta sulla trasmissione 
                del messaggio ha dato il là ad un vero e proprio orientamento 
                di studi e ricerche scientifiche. Chiunque, per ragioni di studio 
                o professionali, si sia imbattuto in una simile opzione culturale 
                sa bene a cosa mi riferisca: immancabile ed emblematico è 
                il grafico nel quale, attraverso una linea e una freccia, la questione 
                della comunicazione si risolve in buona sostanza nel capire come 
                l’emittente A raggiunga con il proprio messaggio il ricevente 
                B. 
                Così linearmente posto, il problema ha però giocoforza 
                evidenziato come lo stesso B condivida l’identica necessità, 
                apportando ben presto al grafico originale un’ulteriore 
                freccia di segno opposto. Di lì a breve, è parimenti 
                parso limitante considerare la relazione in termini di semplice 
                orizzontalità: le linee si sono dunque progressivamente 
                arrotondate, fino a comprendere A e B in una rappresentazione 
                ora circolare, in seguito inscritta all’interno di una serie 
                di retroazioni (feed-back) complicate, per arrivare infine a scoprire 
                che nella loro relazione era pur compreso – come sempre 
                - un terzo punto di vista, C, che sorprendentemente garantiva 
                il moltiplicarsi di linee e frecce e conseguentemente delle loro 
                possibili combinazioni… I sofisticati e accessibili programmi 
                di grafica dei nostri computer rendono ormai possibile, dismessi 
                i vecchi lucidi, attraverso “Power Point”, rappresentazioni 
                delle nostre dinamiche comunicative sempre più articolate, 
                belle e colorate. 
                All’interno di questo paradigma (Cacciamani S., Psicologia 
                per l’insegnamento, Carocci, Roma 2002), ovvero di 
                una visione del mondo, nello specifico della comunicazione, le 
                parole d’ordine (nelle università, nelle aule della 
                formazione soprattutto aziendale, nelle sale dei convegni, nei 
                contesti segnati dal ricorso ai più diversi media) sono 
                comprensibilmente diventate quelle di “abilità”, 
                “efficacia”, “competenza”, in altri termini 
                (possibilmente inglesi) tutto quanto concretamente occorre affinché 
                ciò che abbiamo da dire (e da ascoltare?) possa fluire 
                in maniera da risultare pertinente e, soprattutto, convincente, 
                facendo in tal guisa di noi validi comunicatori e ascoltatori.
                Naturalmente, la prospettiva appena ricordata non è l’unica 
                di cui oggi possiamo disporre. Secondo altri studiosi della comunicazione, 
                che si collocano lungo una linea ideale che congiunge Simmel (Simmel 
                G., Il conflitto nella cultura moderna e altri saggi, 
                Bulzoni, Roma 1976) a Bateson (Bateson G., Verso un’ecologia 
                della mente, Adelphi, Milano 1976), al di là delle informazioni 
                che ci scambiamo sui contenuti c’è infatti una domanda 
                fondamentale che sempre rivolgiamo al nostro interlocutore, una 
                domanda implicita che suona silenziosamente, ma non per questo 
                in modo meno incisivo, più o meno così: “Come 
                mi vedi?”, ovvero “Mi accetti, mi giudichi positivamente, 
                confermi l’immagine di me stesso che in questa situazione 
                vorrei trasmettere?”. Senza il bisogno di ricevere una risposta 
                a questa domanda, limitandosi a considerare le sole esigenze trasmissive 
                legate al contenuto, la comunicazione umana non si sarebbe sviluppata, 
                secondo Paul Watzlawick, “oltre gli scambi necessari alla 
                sopravvivenza” (Contini M.G., a cura di, Il gruppo educativo, 
                Carocci, Roma 2000, p. 17). 
                Con la scuola della “pragmatica della comunicazione” 
                (Watzlawick P. et alii, Pragmatica della comunicazione umana, 
                Astrolabio, Roma 1971), di cui Watzlawick è appunto stato 
                uno degli esponenti di maggior spicco, alla mera attenzione per 
                gli aspetti “di contenuto” se ne intreccia un’eguale 
                per gli aspetti definiti “di relazione” e, grazie 
                a ciò, la comunicazione da competenza relazionale del soggetto 
                diventa competenza relazionale interattiva del sistema. Da ciò 
                discende, ad esempio, che acquisire consapevolezza di sé, 
                della propria comunicazione, oltre l’idea di abilità 
                e di efficacia, include innanzitutto l’imparare a discernere 
                il piano dell'autopercezione (come mi vedo io) da quello di come 
                mi vedono gli altri (con le loro proiezioni e i loro fantasmi). 
                Al pari di qualsivoglia comportamento (da cui l’assioma 
                relativo all’impossibilità di non comunicare), anche 
                la comunicazione non è più tematizzata come qualcosa 
                che semplicemente si produce, bensì come un contesto a 
                cui soprattutto si partecipa (dove il posto in cui siamo, l’ordine 
                in cui parliamo, il tempo che occupiamo parlano per noi, prima 
                e spesso più di quanto abbiamo-vogliamo dire) e dei cui 
                esiti si è quindi solo parzialmente “padroni”. 
                Si comprende come, in una simile visione, comunicazione e relazione 
                finiscano per risultare essenzialmente sinonimi. 
                Il passaggio da una prospettiva lineare a una complessa della 
                relazione educativa (Formenti L., "L’ascolto che cura", 
                in Gamelli I., a cura di, Il prisma autobiografico, Unicopli, 
                Milano 2003), dunque dell’ascolto e della comunicazione 
                quali aspetti che la sostanziano, ha generato una nuova attenzione 
                per dimensioni prima trascurate. Fra questi, in particolar modo, 
                ve ne è uno che riguarda la dimensione cosiddetta “analogica” 
                che, a differenza del codice digitale proprio del linguaggio verbale, 
                mette al centro gli aspetti non verbali inclusi nei nostri scambi 
                comunicativi. Ma cosa significa disporsi all’ascolto con 
                il proprio corpo.
              
                Quale corpo?
              Nel 1899, 
                Philippe Tissié, un noto medico francese, si trova a trattare 
                un caso d'instabilità mentale di un giovane di diciassette 
                anni, con idee ossessive, collerico e manifestamente aggressivo. 
                Il ragazzo rifiuta la compagnia dei suoi compagni di scuola, entra 
                spesso in forte conflitto con loro e perciò si trova a 
                trascorrere molto tempo in totale solitudine. In compenso, cammina 
                molto: nel giardino dei suoi genitori, nella sua camera, nei corridoi, 
                nella strada. Cammina e cammina, soprattutto dopo il riposo. 
                Tissié decide di sottoporlo a un trattamento basato sull’esecuzione 
                di movimenti elementari di coordinazione, di flessione, d’equilibrio, 
                di salto al trampolino, di corsa a piedi, di passeggiate in bicicletta, 
                perfino di boxe. A intervalli regolari, inoltre, lo costringe 
                a delle docce fredde. I progressi del giovane sono, a dire del 
                medico, rapidi: la paura lo abbandona, le manifestazioni violente 
                si riducono, la possessione deambulatoria diviene rara, poiché 
                – sentenzia Tissié – la ginnastica medica gli 
                ha permesso di impiegare la forza che prima utilizzava nel conflitto. 
                Qualche anno più tardi, il medico francese integrerà 
                la sua nuova teoria, completandola con l’azione psico-dinamica 
                della ginnastica respiratoria che – sempre secondo Tissié 
                – stimola i centri psico-motori e la suggestione, sviluppa 
                il controllo di sé e sollecita a livello cerebrale l’incontro 
                tra il pensiero e il movimento. Parlando per la prima volta dell'esistenza 
                a livello cerebrale di un legame tra i centri psico-motori e il 
                movimento, agli inizi del '900 Tissié costruisce un nuovo 
                spazio di oggetti e di concetti, la ginnastica medica, una teoria 
                e una pratica che colloca tra la fisiologia e la psicologia (Fauché 
                S., Du corps au psychisme, PUF, Paris 1993).
                Da quale assunto è partito Tissié? Da un modello 
                che oggi definiremmo "funzionale", “strumentale”, 
                da un’immagine dell’uomo come riserva di forza e di 
                energia. Secondo questo modello tutti i processi biologici si 
                sviluppano, in estrema sintesi, attraverso un'alternanza binaria 
                di "carica-scarica": quando la scarica è impedita, 
                si generano conflitti che impediscono all'individuo di funzionare 
                con il suo pieno potenziale energetico, una condizione che, diventata 
                stato cronico, determina l’insorgenza di blocchi sia a livello 
                fisico (muscolare) sia psichico.
                La visione funzionale del rapporto mente-corpo s’impone 
                per buona parte del secolo scorso. Dall'ipnosi di Charcot e di 
                Freud, passando attraverso le teorie catartiche di Willheim Reich, 
                pioniere della bioenergetica, fino alle recenti mode del fitness, 
                si diffonde per questa via un'idea del corpo come luogo dell'energia 
                repressa, luogo di accumulo di tensioni, di conflitti – 
                di volta in volta e in base agli assunti delle diverse scuole 
                – da contenere e controllare oppure da scaricare e liberare. 
                Questo modello funzionale si basa sostanzialmente sull'idea di 
                un corpo avvertito come “pericoloso”, minaccioso, 
                poiché sostanzialmente "opaco", in quanto non 
                svela all’esterno le reali dinamiche delle sue ragioni e 
                del suo funzionamento. Un corpo il cui senso ultimo da sempre 
                incanta, sorprende e insieme sfugge al controllo. Da lì, 
                anche, lo sforzo (illusorio) di renderlo "trasparente": 
                attraverso, ad esempio, l'enfatizzazione della prestazione, fino 
                ad arrivare alla produzione di protesi per liberarsi dai limiti 
                biologici, ai recenti e inquietanti scenari aperti dalla manipolazione 
                chirurgica e genetica... (Gli uomini, intesi come genere maschile, 
                non abitano il corpo. Probabilmente poiché subalterni in 
                relazione ai processi generativi della specie – da questo 
                punto di vista, molti studi di genere parlano di "miseria 
                del corpo maschile" – gli uomini hanno sempre manifestato 
                un'urgenza di emancipazione dal corpo, dal biologico, dai suoi 
                segnali, dall'ascolto… Un esempio emblematico è costituito 
                dalle vicissitudini occorse, nei tempi moderni, alle pratiche 
                della nascita, evento corporeo e misterioso per eccellenza. La 
                loro essenziale dimensione naturale, propria del genere femminile, 
                è stata progressivamente ospedalizzata e messa sotto il 
                controllo del sapere medico, non a caso ancora oggi in questo 
                settore prevalentemente maschile).
                Che il corpo possa essere così percepito è ben testimoniato 
                dagli importanti studi di Michel Foucault (Foucault M., Sorvegliare 
                e punire, Torino, Einaudi 1975) sull'organizzazione della 
                disciplina nelle istituzioni totali: il carcere, l’ospedale, 
                la caserma… la scuola. Ciò che veramente conta nell'esperienza 
                dell'educare – sostiene Foucault – non è infatti 
                la persona dell'educatore-insegnante-istruttore che sia, non è 
                l'azione educativa, non è il metodo o la tecnica, non è 
                l'apprendimento e neppure l'apprendimento dell'apprendimento; 
                non è il contenuto, non è la disciplina, non è 
                la comunicazione, non è la conoscenza del mondo psichico 
                dell'educando, non è la dinamica sociale e familiare, non 
                è la cultura di provenienza. Ciò che veramente educa 
                è il reticolo che connette fra loro tutti questi elementi, 
                un "dispositivo" nel quale rientrano soprattutto la 
                cura degli spazi, dei tempi, dei corpi (Mottana P., “La 
                pedagogia come clinica della formazione”, Pedagogika, 
                n. 21-2001). Foucault sottolinea, ad esempio, come la tecnologia 
                dell'organizzazione di uno spazio seriale (la tradizionale fila 
                di banchi orientati verso la cattedra) costituisca la vera grande 
                innovazione delle tecniche comunicative dell'insegnamento, avendo 
                determinato un'economia dei tempi e degli spazi funzionale alla 
                creazione di una disciplina tesa a formare corpi docili, addomesticati 
                e, in quanto tali, predisposti alla assimilazione delle reti precostituite 
                del sapere disciplinare, al cui vertice egli pone quello medico. 
                Tutti noi siamo stati educati all’interno di questo modello: 
                nell'illusione educativa di poter educare esclusivamente attraverso 
                la parola e le buone intenzioni senza dover fare i conti con altre 
                dimensioni del sentire e del conoscere. Siamo tutti cresciuti 
                in quel pregiudizio, già segnalato da Maria Montessori 
                quando invitava, nella pratica educativa, a rompere con l'associazione 
                di ciò che è “bene” con l'immobilità 
                e la parola e di ciò che è male con la corporeità 
                e il movimento.
                Negli anni '60-'70 si profila appunto, anche come reazione al 
                modello funzionale, un altro approccio al corpo e al movimento. 
                Motore di questo cambiamento è senza dubbio lo scenario 
                sociale e culturale di rivolta giovanile in cui si inscrive. Il 
                conflitto trasforma la visione del corpo da luogo da contenere 
                e da emendare in quella di luogo da ascoltare, da lasciar vivere. 
                Una visione complessa che potremmo definire di natura relazionale, 
                olistica, globale e dinamica.
                Non più considerato un oggetto, bensì un campo, 
                il corpo diventa strumento per intrattenere rapporti con il mondo, 
                sistema di opposizioni intorno a cui si giocano nuovi conflitti 
                e nuove domande di trasformazione personale e collettiva. “Ho 
                coscienza del mondo attraverso il corpo” è lo slogan 
                di quegli anni preso a prestito da una famosa affermazione del 
                grande filosofo della percezione Merleau-Ponty. Il corpo non più 
                visto dunque come “il mio corpo/il tuo corpo”, bensì 
                come territorio di confine, di contatto emotivo; il corpo come 
                sfondo e contesto per un'esperienza relazionale e comunicativa 
                da intendersi come evento intersoggettivo. L'idea di corpo come 
                campo si accompagna al recupero della nozione di “dialogo 
                primario”, che sottende il rapporto che intratteniamo con 
                le emozioni quale conseguenza del modo in cui i nostri genitori 
                si sono, sin dai primi giorni, relazionati con noi a livello corporeo, 
                della comunicazione non verbale.
                Il bambino impara a riconoscere ed esprimere le emozioni attraverso 
                l’osservazione e l’imitazione. Ad esempio, se il bambino, 
                per qualche ragione, mostra perplessità e inarca le sopracciglia, 
                la madre inarcherà le sopracciglia “dicendogli” 
                qualcosa che è la sua interpretazione di ciò che 
                lui pensa stia comunicandogli. E’ la prima esperienza che 
                fa il bambino di essere compreso da un altro: è l’inizio 
                della comunicazione emotiva. Il bambino che, contrariamente a 
                quello che si pensa, fin dai primi mesi di vita dispone della 
                capacità di crearsi delle rappresentazioni del mondo di 
                ciò che gli accade intorno, reagisce con dei movimenti, 
                delle contrazioni muscolari all’uso particolare delle vocali 
                e consonanti di sua mamma che gli parla. Le emozioni hanno dunque 
                delle radici corporee, legate al dialogo tonico. Un noto ricercatore, 
                Daniel Stern (Stern D., Il mondo interpersonale del bambino, 
                Bollati Boringhieri, Torino 1987), ha postulato l’esistenza 
                di un alfabeto emotivo primario, da lui definito degli “affetti 
                vitali”. Lo sviluppo di questi affetti nel bambino non dipenderebbe 
                dal fatto di essere stato coccolato, cullato, accudito eccetera. 
                Le differenze dipenderebbero da come la mamma lo ha tenuto in 
                braccio, da come gli ha parlato… da come queste qualità 
                di percepire le relazioni sono state introiettate da noi a partire 
                dalla relazione primaria con qualcuno/a che nel frattempo si muoveva 
                nello spazio, condizione che accresce ulteriormente gli stimoli 
                tattili, uditivi, visivi, cinestesici. Una piena sintonizzazione 
                corporea produce degli importanti risultati a livello dei processi 
                di apprendimento. Insegna, fondamentalmente, cosa si può 
                fare con uno schema motorio: indica opzioni, stili, possibilità. 
                E’ attraverso la sintonizzazione corporea che noi tutti 
                abbiamo imparato che le altre persone possiedono differenti stati 
                interiori e modi differenti di comunicarli, che esiste un vissuto 
                interno e uno esterno, che la comunicazione è resa possibile 
                dal delicato lavoro sulla distanza da porre fra noi e gli altri 
                senza che si smarrisca la relazione. In ogni attività, 
                in tutte le proiezioni di noi nel mondo ritroviamo la nostra immagine 
                del corpo. I modi di esprimerci a ogni livello, la costruzione 
                delle nostre frasi, la nostra gestualità, la scelta delle 
                persone attorno a noi, la disposizione del nostro appartamento, 
                tutto questo e altro racconta di quell’immagine e contribuisce 
                a compensare costantemente, a livello simbolico, la perdita del 
                piacere originario. 
                Per le scuole di pensiero di matrice comportamentista, da quest’immagine 
                discende la nozione di “schema corporeo”, vale a dire 
                la maturazione delle capacità “prassiche” (l’integrazione 
                delle diverse parti del corpo al fine di realizzare coordinazioni 
                funzionali sempre più efficaci), che si consolida, parallelamente 
                allo sviluppo neurofisiologico, intorno al 12°-13° anno 
                di vita. Ma per altri teorici – come vedremo nel prossimo 
                paragrafo - tale diretta associazione risulta alquanto riduttiva, 
                poiché non è semplicemente stimolando ed educando 
                il movimento che si facilita o si ristabilisce la comunicazione, 
                i cui fondamenti sono innanzitutto la relazione, il piacere, la 
                presenza. (Quanto contenuto in questo paragrafo riprende, in estrema 
                sintesi, la materia di un mio saggio di recentissima pubblicazione: 
                Gamelli I., "Pedagogia ed educazione motoria", in AA.VV., 
                Pedagogia ed educazione motoria, Guerini e Associati, 
                Milano 2004). 
              Prevenire 
                il corpo-docente
              Disponiamo 
                oggi dunque di due prospettive dalle quali considerare l’ascolto 
                e la comunicazione corporea. La prima consiste fondamentalmente 
                nel ritenere il linguaggio del corpo come denotativo delle cose 
                e delle persone. I tradizionali studi della cosiddetta “Comunicazione 
                non verbale” ne costituiscono il vertice più significativo 
                (Argyle M., Il corpo e il suo linguaggio. Studio sulla comunicazione 
                non verbale, Zanichelli, Bologna 1975). Secondo la CNL, infatti, 
                ogni segnale corporeo (gesti, atti, posture) rappresenta, nella 
                logica di causa-effetto, un indicatore esterno di uno stato interno 
                dell’individuo. Così, se di fronte a un insegnante 
                tenderò a chiudermi nelle spalle, a guardare verso il basso, 
                ad abbassare il tono della voce ecc., tutto ciò starà 
                inequivocabilmente a indicare il “mio” disagio verso 
                quella relazione: l’ampia pubblicistica a disposizione di 
                questa opzione culturale si sforza di completare il suo “catalogo” 
                con una molteplicità sempre più esaustiva di segni-segnali 
                e relativi significati che, al di là di ogni giudizio di 
                merito, finiscono con l’assegnare alla comunicazione corporea, 
                in nome dell’urgenza classificatoria, un valore aggiunto 
                ma subalterno, per non dire opzionale, rispetto a quello della 
                parola.
                Ben diversa è la seconda prospettiva che invece s’interroga 
                sulle “funzioni relazionali” del dialogo corporeo.
              Apro 
                la porta del frigorifero. Il gatto arriva e si strofina contro 
                la mia gamba ed emette una variante della proposizione “miao”. 
                Asserire che comunica “Dammi del latte” può 
                essere utile, ma non è una traduzione corretta dal suo 
                linguaggio al nostro. Più fedelmente dovremmo tradurre 
                “Sii mamma”, “Fammi da mamma” (…). 
                Questa forma di comunicazione non è riducibile né 
                a uno stimolo né a una risposta. Non è neppure riducibile 
                a “una descrizione” e nemmeno a “un ordine”, 
                è “un’idea concretizzata”: strofinandosi 
                sulla mia gamba e facendo “miao” il gatto EVOCA UN 
                CONTESTO RELAZIONALE del quale lui è già pienamente 
                parte (…) ATTIVA UNA DINAMICA CONFIGURAZIONALE (…) 
                in quanto coinvolge l’interlocutore compromettendosi fisicamente 
                ed emozionalmente nell’evocazione di Gestalt che corrispondono 
                a specifiche e contingenti configurazioni della socialità 
                e del potere (Sclavi M., Arte di ascoltare e mondi possibili. 
                Come si esce dalle cornici di cui siamo parte, Bruno Mondadori, 
                Milano 2003, pp. 225-226).
              L’esempio 
                del gatto, che nella citazione Marianella Sclavi prende a prestito 
                da Gregory Bateson, illustra bene il passaggio da un’attenzione 
                corporea tutta centrata sulla psicologia dell’individuo, 
                qual è il caso della CNL, ad un’attenzione impegnata 
                al contrario a inscriverlo in una relazione. Il significato dell’interazione 
                è da rintracciare nello spazio corporeo aperto dall’incontro. 
                Ascoltare e ascoltarsi attraverso il corpo significa divenire 
                consapevoli che la relazione che s’instaura a tale livello 
                “è sempre autoriflessiva, circolare, dialogica; rimanda, 
                per essere descritta, alle reazioni, alle reazioni alle reazioni. 
                Non ci informa su cosa guardiamo ma su come siamo dinamicamente 
                impegnati a costruire i contesti di cui siamo parte” (Ibid., 
                pp. 231-232).
                Un luogo per eccellenza dove più sensibile si è 
                palesata la ricerca intorno a una simile consapevolezza è 
                certamente quello del teatro. In particolar modo di quel teatro 
                che nel secolo scorso più si è interrogato circa 
                il senso da attribuire alla relazione attore/pubblico. Messa in 
                crisi la concezione tradizionale della commedia borghese, di un 
                teatro “liturgico” nel quale tutto si risolveva nello 
                “spostare il corpo” sul palcoscenico per mandare a 
                memoria un testo, alcuni grandi riformatori dell’arte attorale 
                si sono chiesti come fare per mettere primariamente in scena l’attenzione 
                e l’ascolto del loro pubblico. Come l’attore diventa 
                protagonista di una storia che non gli appartiene? “Qual 
                è l’elemento senza il quale il teatro non può 
                esistere?”. Queste e altre domande hanno dato il via ad 
                una stagione fertile di ricerca, incarnata soprattutto in alcune 
                figure. Valga qui per tutte quella di Jerzy Grotowski, acclamato 
                regista polacco, allievo di Stanislavskij, che, nella seconda 
                metà del ‘900, dopo aver messo trionfalmente in scena 
                solo pochi spettacoli, decidendo di “ritirarsi” dal 
                gioco delle rappresentazioni, inaugurò un nuovo modo di 
                pensare e fare teatro, interessante soprattutto per le straordinarie 
                analogie che esso ha saputo nel tempo manifestare – come 
                richiamato dalla illuminante citazione che segue - rispetto ai 
                contesti propri dell’educazione. 
              Un 
                progetto formativo viene spesso concepito come un testo normativo. 
                Se invece, come formatore, educatore, insegnante, penso il programma 
                non come un testo ma come un copione teatrale, il programma non 
                si situa fuori dallo spazio dell’educare, lontano da me 
                e dai miei allievi, ma si pone come qualcosa che “noi” 
                dobbiamo “recitare” (Antonacci F., Cappa F., a cura 
                di, Riccardo Massa. (Lezioni su) la peste, il teatro, l’educazione, 
                Franco Angeli, Milano 2001, p. 82).
              Per Grotowski 
                può eliminare la scenografia, si possono eliminare gli 
                effetti luce, l’intervento musicale, il trucco, il costume, 
                si può eliminare anche il testo, ma finché resta 
                la presenza fisica ed espressiva dell’attore a confronto 
                con il pubblico, il teatro (l’educazione) esiste: un’espressività, 
                una comunicazione e un ascolto possono essere instaurate. A questa 
                irriducibilità del corpo all’atto teatrale inteso 
                come potere d’ascolto (definita da Grotowski, “organicità”) 
                il regista polacco è arrivato attraverso un particolare 
                percorso, da lui definito “parateatrale”, basato sullo 
                studio dei comportamenti corporei che determinano le condizioni 
                per “un uomo e una donna attenti”, il quale merita 
                di essere quantomeno accennato. Nei suoi numerosi viaggi e stage 
                in giro per il mondo, radunando attorno a sé individui 
                di differenti tradizioni e culture, aldiquà delle ragioni 
                religiose ed esoteriche, egli si era reso conto di una semplice 
                e profonda verità. 
              In 
                diverse pratiche legate a momenti di culto, di meditazione o di 
                semplice attenzione, in culture distanti tra loro, i corpi di 
                coloro che cercano la concentrazione si trovano in una posizione 
                analoga: immobile e dinamica, in equilibrio instabile, all’erta, 
                al limite dello squilibrio. Quando le pratiche rituali, a cui 
                sono legate queste posizioni del corpo si cristallizzano o istituzionalizzano, 
                d’un tratto i corpi si rilasciano. Ci si siede (Lorenzoni 
                F., L’ospite bambino, Era Nuova, Perugia 2002, 
                p. 102). 
              Da sempre, 
                tutte le forme di meditazione e preghiera presuppongono una disciplina 
                posturale. In alcuni casi – come nell’essenzialità 
                buddista della corrente Zen – la comunicazione e l’ascolto 
                “di ciò che è più importante di noi” 
                coincide strettamente con l’attitudine corporea, è 
                la postura.
                Quando però la liturgia (della parola) prevale sull’energia 
                della fede, allora… ci si siede nelle chiese come si sprofonda 
                nei nostri sempre più soffici divani. Il corpo-docente 
                si nasconde al riparo della cattedra…
              Una 
                pedagogia dei piccoli mali
              Quali vantaggi 
                può trarre un educatore resosi sensibile agli aspetti corporei 
                della relazione formativa?
                Sarà certamente un osservatore più attento di come 
                i corpi si dispongono e si muovono nello spazio, delle loro “danze” 
                (dei ritmi), ovvero delle varie possibili configurazioni relazionali 
                che i medesimi (incluso il proprio, ovviamente) dispiegano. Soprattutto, 
                non isolerà più i singoli comportamenti, con l’inevitabile 
                operazione giudicante che ne scaturisce. Di conseguenza, saprà 
                utilizzare tali consapevolezze come risorse formative (Ad esempio, 
                chiedendosi: Cosa faccio (quali azioni) prima di entrare in aula? 
                E quando mi appresto a iniziare una lezione? Occupo sempre lo 
                stesso posto? Sono consapevole di essere fermo o in movimento 
                quando lo sono? Con quali atti “carico” i silenzi? 
                Il mio tono della voce “punteggia” i passaggi delle 
                mie comunicazioni? Come guardo, cosa muovo, cosa penso mentre 
                ascolto?…).
                La pedagogia del corpo si offre perciò come una pedagogia 
                dell'ascolto e della presenza, un'attitudine che legittima un 
                diverso atteggiamento e posizionamento in relazione all'altro, 
                offrendo opportunità per cambiare le configurazioni abitudinarie, 
                per agire lo “piazzamento apprenditivo”. Le parole 
                che seguono, di un operatore nel campo della terapia a mediazione 
                corporea, ci aiutano a chiarire bene cosa significhi stare nella 
                relazione filtrandola attraverso il proprio corpo:
              Durante 
                una seduta con una mia piccola paziente, mi coglie una grande 
                sonnolenza. Il mio corpo diventa pesante, i ritmi interni sembrano 
                rallentare, il respiro si limita al torace. Con un altro bambino, 
                in un'altra occasione, invece, il respiro è accelerato, 
                mi sorprendo agitato, mi accorgo di muovere molto il mio corpo. 
                Con un altro bambino ancora mi sento girare la testa, trattengo 
                il respiro, non riesco a percepirmi con la stessa solidità, 
                le cose sembrano perdere i loro contorni precisi, mi sento fluttuare 
                (Cartacci F., Bambini che chiedono aiuto, Unicopli, Milano 
                2002).
              Sospendendo 
                il giudizio, l'abitudine a voler immediatamente intervenire, disponendoci 
                ad ascoltare ciò che passa attraverso il proprio corpo, 
                si apre l'interazione educativa ad un flusso continuo di segnali:
                - Come sto respirando?
                - Come batte il mio cuore?
                - Come varia il mio tono muscolare?
                - E la mia voce?
                - Quale qualità esprime il mio gesto, il mio sguardo, la 
                mia mimica?
                - …
                Sapere cosa provo attraverso il mio corpo di fronte all’altro 
                mi permette non solo di capire cosa l'altro prova, soprattutto 
                di generare naturalmente un’effettiva sintonizzazione, di 
                evidenziare e nominare emozioni e sentimenti che in-formano la 
                relazione con quel particolare bambino, adolescente o adulto che 
                sia. 
              Il rapporto 
                con il linguaggio del corpo, prima ancora di divenire pratica 
                psicopedagogica, è una "pedagogia dell'esistenza". 
                Una pratica della nostra quotidianità che possiamo affinare 
                oltre e prima che essa diventi pratica psicopedagogica, come ci 
                ricorda Alberto Melucci nella riflessione che segue, cui affido 
                la conclusione di questo mio contributo: 
              Una 
                delle esperienze più comuni in cui il conflitto del corpo 
                si manifesta nella nostra vita quotidiana sono i piccoli mali, 
                tutti quei fastidi e disagi fisici per i quali normalmente non 
                riteniamo necessario un intervento medico. Tutti noi, in misura 
                variabile, siamo afflitti o visitati da questi piccoli mali (…) 
                Che cosa significano per noi questi stati fisici e queste sensazioni 
                del corpo che ci visitano con tanta continuità? (…) 
                Ciò che connota i piccoli mali è il fatto che essi 
                sono nel corpo. Abbiamo mal di testa, mal di stomaco, mal di schiena, 
                e così via (…) Quali sono le risposte correnti che 
                più o meno tutti utilizziamo verso i piccoli mali? La più 
                generale è la negazione. Ciò significa che anche 
                se fisicamente continuiamo a registrare tutti i disagi di cui 
                sappiamo, non facciamo posto alla possibilità di nominare, 
                di dare un senso a questa parte della nostra esperienza (…) 
                Col tempo non diciamo neppure più "Ho mal di testa", 
                ma ci rifugiamo nel più generico "Non sto bene". 
                L'altra risposta fondamentale ai piccoli mali è il ricorso 
                ai farmaci. Attraverso i farmaci si ottiene il risultato fisiologico 
                di ridurre o annullare il fastidio, allontanando fisicamente l'ospite. 
                Ma si raggiunge anche l'effetto, più importante dal punto 
                di vista psicologico, di cancellarlo dalla lista. Dove prima c'era 
                una presenza creiamo, mentalmente e affettivamente, uno spazio 
                vuoto. Il silenzio del corpo. A noi allora decidere se cancellare 
                questa relazione con un'elaborazione mentale o con i farmaci, 
                oppure se assumere la responsabilità di dare senso alla 
                nostra finitezza. Poiché i piccoli mali non ci ricordano 
                solo che siamo finiti e che possiamo morire, ma anche che stiamo 
                vivendo, che traduciamo nel nostro corpo una condizione esistenziale, 
                ambientale, relazionale (…) Diventare vittime o interlocutori 
                di questi processi dipende anche dalla nostra vicinanza al corpo 
                che siamo. Di fronte al corpo asettico della medicina potremo 
                far esistere un corpo vivo solo se ne avremo imparato la parola 
                (Melucci A., Il gioco dell’io, Feltrinelli, Milano 
                1991, pp. 78-86).